[…] All’inizio di un mutamento dell’anima, osserva Jung, appaiono sogni e segni di animali: serpe, uccello, cavallo, lupo, leone, drago. In un secondo momento a queste immagini degli istinti che si debbono affrontare, succede una serie diversa: incavo, cella, profondità di acque, mare.

A questi seguiranno fuoco, armi, strumenti, a significare che si sta operando la trasformazione.
Il momento cruciale evocherà nel sogno, e nella realtà significante, i simboli dell’ermafrodito, del transito periglioso, della sospensione dell’aleggiare o nuotare, dell’albero che connette cielo e terra.

La rinascita ed il nuovo equilibrio meridiano saranno indicati da circoli, quadrati, fiori, ruote, soli o, nelle forme negative, da reti e carceri.
L’acqua che cinge l’universo, l’Oceano, è un circolo, simbolo dell’eternità che è fruizione immediata di cose infinite, stato divino.

L’acqua che può zampillarci dentro è un’immagine di libertà, di felicità. Ma può anche essere simbolo di angoscia poiché ogni simbolo è bifronte.
L’uomo che si è chiuso nella sua volontà tenendo a bada come bestie pericolose i suoi istinti, sentirà l’urgere delle acque interiori come una minaccia […].

[…] Vincere la paura non significa solo affrontare l’ignoto, abbandonare la città, ma anche smantellare le difese interiori, le corazze che si sono indossate a difesa del mondo, sciogliersi dalla paralisi e dai gesti di allarme.

Allora crollano le paure del nuovo e dello strano e dello straniero, si ravvisa proprio in ciò che ha ripugnato ciò che attrae. Si è liberi di “accordarsi ai magneti”, si è acquistata la virtù dell’abbandono; le acque del tempo sono state sciolte, il gelo è stato vinto dal fuoco[…].

La prima tappa è compiuta, sciolti dalla noia, dalla paura, dal risentimento…
Mansuetudine e tremore nel cuore ci vuole per affrontare il rischio di vivere secondo l’ispirazione, cioè disponendosi a rispettare i segni di Dio che il destino offra, a essere abbeverati dalle acque di vita.

I contenuti nuovi che affiorano dall’inconscio sono rischiosi, sono vivi perché ambigui. Ma proprio perché ci si difende da essi, hanno un carattere tremendo e pauroso. Proprio perché non ci si è purificati dalla paura e dalla sua compagna astuzia, dal panico che detta il gesto di offesa e di difesa nonché dall’obbedienza alle norme della comunità proprio perciò il contatto con le acque di vita è fonte di orrore e sgomento.

La scuola della spontaneità, dell’imprevedibilità, della naturalezza, può produrre un uomo capace di pensare untraditionally and independently, “ricevendo tutte le impressioni dolci e selvagge, fresche dal seno virginale, volenteroso e confidente della natura”, imparando un linguaggio “ardito, nervoso e alto”…
Elémire Zolla, Il conoscitore di segreti, Rizzoli Edizioni, 2006.

Soli / Fiori
Fino a qualche tempo fa l’attenzione di Chiara Castagna era orientata a mettere in scena una sorta di metamorfosi infinita, una collisione vertiginosa di registri visivi, dove il letterale e il simbolico, il sacro e il profano, il reale e il mitologico, l’animale e l’umano non permettevano più una precisa riconoscibilità. A lei interessava cogliere connessioni azzardate, modelli esistenziali imprevisti, immagini miste, convinta di un conflitto insanabile tra essere e divenire, tra identità e alterità.

Negli ultimi lavori l’artista, pur non abbandonando la ricerca di una con-fusione formale, dà l’impressione di far sorgere le sue “nozze miracolose” dal fondo stesso del linguaggio. Non esibisce più, cioè, in maniera teatrale, un’immagine ambigua e proliferante, ma fa in modo che sia la stessa “materia in movimento” a suscitare l’effetto di una palpitazione fisica ininterrotta. Fa cadere gocce di colla vinilica mista ad acrilico perlato o traccia matasse di filamenti bizzarri e capricciosi che invadono interamente le tele. Solo che queste gocce o questi fili non hanno nulla a che vedere con le colature di un Pollock: il pittore americano si mette al centro del quadro, fino a far scomparire l’ultimo testamento della forma e far diventare l’artista la cosa stessa che sta creando. Il processo di Chiara invece è sempre pensato come un lavoro di tessitura e, dunque, come una elaborazione di un testo (con i suoi punti, le sue linee, le sue pause). E che si tratti dei “fili di un discorso” ce lo fa pensare anche la riservata confessione della stessa artista: “Ho sempre con me un diario in cui annoto ogni idea al suo sorgere”. E’ una piccola smania di scrittura, la sua, in cui, come direbbe R. Barthes, “esprime essenzialmente l’inessenziale del mondo, anzi il mondo come inessenziale”. Non può essere che così per ogni annotazione presa a caldo: non è disegno, non è studio, non è interpretazione: è una materia senza qualità, molto vicina in qualche modo a una reliquia o a una fragile apparizione. Ma come trasferire in opera ciò che è pura emozione, come darle una consistenza, un corpo, senza irrigidirla in forma, senza costituirla in mondo?

Quando Chiara si affida alle gocce, come nella serie degli alberi (Albero bianco, Albero d’oro, Albero doppio) trasmette l’idea di una grandinata di tocchi di pennello che si urtano, s’intrecciano, si sovrappongono, fino a dar vita a un’ipotesi di foglia (linguisticamente si direbbe a una sineddoche: cioè all’impiego della parte per il tutto, all’albero, appunto). E’ un lavoro lento, paziente, meticoloso, come quello di una merlettaia che riprende in continuazione il filo, riportandolo sul tamburo, fino a che il tamburo stesso non si riempie di un ritmo puntiforme sconosciuto e indistinto. Ma assomiglia anche alla pratica del writer, per il quale centrale è il gesto, non l’immagine, o meglio l’immagine che si costruisce per mezzo del gesto, che modella, orna, colora le lettere in maniera talmente ossessiva da rendere irriconoscibile il significato della parola decorata. All’artista non interessa mettere a fuoco una forma, quanto, paradossalmente, sottrarla al suo stesso modo di apparire. Il suo è un universo di molecole di materia, di atomi di chiarore che non creano blocchi percettivi, ma che aprono le forme verso lo spazio. Basta un minimo cambiamento di luce perché si assista ad una abissale trasformazione visiva, ad un incessante disconoscimento del limite, ad una inattesa epifania dell’oltre.

E anche quando la pratica pittorica di Chiara pare farsi severa, architettura di linee concentriche o radianti, come una tela di ragno (vedi i dittici La grande onda, Occhi di lupo o l’estremo polittico Soli / Fiori) mai la visione risponde a una stretta idea di ritmo, misura, pensiero. Anzi, quanto più l’azione contiene un’idea di controllo e di progetto, tanto più i filamenti avanzano a ondate, senza smettere di travolgere tutte le rappresentazioni, di inghiottirle, di coinvolgerle nei loro movimenti ritmici, nei loro battiti, nei loro respiri. Quelli di Chiara non sono mai progetti chiusi in se stessi, esercizi logici o filosofici. In lei la filosofia si tramuta in pulsione fisica, “in mano che traccia, calca, si dirige, in corpo che batte”. I suoi soli, le sue onde, i suoi fuochi d’artificio, i suoi mandala non sono misure della trascendenza o della magia, ma figure del gesto, scritture del soggetto. Così, quella che a prima vista può sembrare una riflessione sulla sezione aurea, sulla simmetria, sull’ordine dei segni, si rivela uno scacco visivo: in realtà qui non c’è partenza e non c’è arrivo, ma solo un divenire infinito, un segno che ripete i propri giri fino a ipnotizzare lo sguardo e liberare l’immaginazione.

E lo stesso impiego del bianco (o dell’azzurro-vena o del rosa-pelle) ha proprio questo scopo: quello di allontanare ogni oscurità, ogni conoscenza preconcetta che ci porta a vedere solo perché sappiamo. Bianco è l’abito dei comunicandi, “candidus” è il colore del candidato, di colui che si accinge a cambiare il proprio stato. Per cui è da scartare ogni rimando al “Bianco su bianco” di K. Malevic: il suo è stato un rito funebre della pittura, la ricerca del grado zero della forma; per Chiara si tratta invece di ricercare il grado plurimo delle “figure”. Il suo bianco non esclude, non è luttuoso, ci puoi vedere attraverso, se non addirittura aldilà.
E’ un tentativo di cogliere la luce oltre gli oggetti (i segni) che nella luce si mostrano. Non descrive cioè una realtà “illuminata”, ma mostra la luce stessa. Parlando dei “Covoni” di Monet, John Sallis ha scritto che essi non sono la rappresentazione delle cose come si mostrano, ma la ‘rilucenza’ attraverso la quale le cose possono essere viste”. E aggiungeva: “Nel momento in cui Monet sceglie di dipingere questa ‘rilucenza’, ciò che è stato dipinto scompare dietro la ‘rilucenza’ stessa”. E come chiamare quell’interazione tra la luce che cade sulla tela bianca di Chiara e la luce che promana dal suo interno, se non ‘rilucenza’? Noi crediamo che sia la luce a permetterci di vedere: immaginiamo di scorgere una immensità di tracce: Chiara ci insegna che di fatto vediamo la luce (o meglio, vediamo ciò che non c’è).

Luigi Meneghelli

Soli/Fiori
Until a short time ago Chiara Castagna was interested in staging a kind of infinite metamorphosis, a vertiginous collision of visual registers, where the literal and symbolic, the sacred and profane, the animal and the human could no longer be precisely recognised. She was interested in making daring connections, gathering together unforeseen existential models and mixing images in the conviction that there was an irremediable conflict between being and becoming, between identity and diversity.

In her latest works the artist, while continuing her search for a formal con-fusion, gives the impression of giving rise to her “miraculous wedding” from the very depths of language. In other words, she no longer shows an ambiguous and proliferating image in a theatrical way but allows the very “material in movement” to create the effect of an uninterrupted physical palpitation. She drops vinyl mixed with pearly acrylic onto the canvas or traces out skeins of weird and capricious thread that invade the whole surface. Except that these drops or skeins have nothing to do with Pollock’s drips: the American painter placed himself in the middle of the painting, to the point of losing the last traces of form and making the artist himself become the very thing he is creating. Chiara’s process, instead, is always to be considered as an act of weaving and, therefore, like the elaboration of a text (with its dots, lines, and pauses). And that this is a question of “threads of an argument” is also quietly confirmed by the artist herself: “I always have with me a diary in which I note down each idea as it crops up”. Hers is a craving for writing in which, as R. Barthes would say, she “expresses essentially the inessential of the world, or rather the world as inessential”. It has to be like this for every hastily made note: it is not a drawing, it is not a study, nor is it an interpretation: it is material without quality, in some way quite similar to a reliquary or a fragile apparition. But how to translate into a work what is pure emotion? How can it be given consistency, a body, without stiffening it into a form, without making it into a world?

When Chiara places her trust in drops, as in the series of trees (Albero bianco, Albero d’oro, Albero doppio) she conveys the idea of a hailstorm of brushstrokes that crash, interweave, and superimpose to the point of giving life to the idea of a leaf (linguistically speaking it would be called a synecdoche, i.e. the use of a part for the whole: the tree in fact). This is slow, patient, meticulous work, like that of a lace-maker who continually picks up the thread and pins it to the bobbin until the bobbin itself is covered by an unknown and indistinct rhythm of dots. But it also resembles the act of writing which has gestures rather than images at its heart or, rather, the image is constructed by the means of gestures which model, embellish, and colour the letters in such an obsessive way that the meaning of the decorated word is unrecognisable. The artist is not interested in putting a form into focus so much as in paradoxically subtracting it from its own manner of appearing. Hers is a universe of molecules of matter, of bright atoms that do not create perceptive blocks but, instead, open forms out to space. The slightest change in light is sufficient to lead to an abyssal visual transformation, to an unending disavowal of limits, an unexpected epiphany of the beyond.

And even when Chiara’s pictorial practice seems to become severe, an architecture of concentric or radiating lines like a spider’s web (for example the diptychs La grande onda, Occhi di lupo, or the ecstatic polyptych Soli/Fiori), her vision never corresponds to a strict idea of rhythm, measure, or thought. On the contrary, the more the action contains an idea of control or planning, the more the threads advance like waves, ceaselessly sweeping away or swallowing up representations, involving them in the threads’ rhythmic movement, their heartbeats, their breathing. Chiara’s are never self-enclosed plans, logical or philosophical exercises. With her, philosophy is transformed into physical drive, “into a hand that traces, stresses, aims; into a body that beats”. Her suns, her waves, her fireworks, and her mandalas are not gauges of transcendence or magic, but are the figures of gestures, the writing-out of a subject. And so what at first sight might seem an idea about the golden section, symmetry or the ordering of marks, reveals itself to be a visual checkmate: in fact here there is no departure or destination but only an infinite development, a mark that repeats its own travels to the point of hypnotising the eye and freeing the imagination.

The very use of white (or vein-like blue or skin-pink) has this aim: that of averting any kind of obscurity, any preconceived ideas that might lead us to see only because of what we know. White is the dress of communicants, “candidus” is the colour of a candidate, the person who is about to change his own status. So we should forget any ideas about Malevich’s “White on white”: his were the funeral rites of painting, the search for form’s ground-zero. For Chiara, instead, it is a question of searching for the “figures” highest state. Her white does not exclude, it is not mournful: we can look through it, even beyond it. It is an attempt to grasp the light beyond the objects (the marks) which are seen in the light. In other words, it does not describe an “illuminated” reality, but shows light itself. In speaking of Monet’s Haystacks, John Sallis has stated that they are not representations of the things they show, but the “luminescence” through which the things can be seen. And he added that when Monet chose to painting this luminescence, what he painted disappeared behind the luminescence itself. And what else could we call that interaction between the light that falls on Chiara’s white canvas and the light that spreads from within it if not “luminescence”? We think it is light that allows us to see; we imagine we can make out an immensity of traces: Chiara teaches us that in fact we see the light (or, rather, we see what is not there).

Luigi Meneghelli

L’icona è un’immagine del mondo venturo; essa (e del come non ci occuperemo) consente di saltare sopra il tempo e di vedere, sia pure vacillanti le immagini — «come in enigmi nello specchio» — del mondo venturo. Queste immagini sono del tutto concrete e parlare dell’accidentalità di alcune delle loro parti significa assolutamente fraintenderne la natura simbolica.

Pavel Aleksandrovic Florenskij

Gli iconografi dell’origine consideravano l’immagine un dono divino, una finestra aperta da Dio verso gli uomini ispirata nella purezza, dalla contemplazione e dalla preghiera. Prima di accolgliere ed iniziare il processo pittorico del disvelamento, il meditante traduceva la creazione attraverso diverse fasi simboliche una delle quali aveva luogo nella stesura materica sulla tavoletta del bianco che simboleggia l’origine, l’inizio della creazione.
Questo gesto del fare bianco l’inizio precede una cosmogonia rivelata e nel contempo ritualizza la nascita come condizione della creazione.
Chiara Castagna è in questo senso madre capace di portare alla luce le cose accompagnandole all’esistenza attraverso il raccoglimento silenzioso dell’attesa.
In questa pratica dell’accoglienza, nel bianco assoluto dei suoi lavori, lei ci riporta all’origine, non come nostalgico amore per la natura in senso romantico, ma per la necessità esistenziale di trovare un punto nell’universo fisico e metafisico, dove il percepire umano può cogliere la forza creativa dell’universo e da lì partire alla scoperta di un linguaggio in grado di fissare un codice cosmico iscritto nella natura che è qui davanti a noi.
Come la scienza costruisce di volta in volta gli elementi sui quali elabora i propri modelli concettuali, così l’arte organizza i propri modelli simbolici attraverso l’informazione estratta dall’inesauribile sorgente dell’esperienza.
Vortici di linee in spazialità primigenie suggeriscono lo sviluppo di un fiore nell’essenzialità dei moti dinamici intesi come espressione di un processo di conoscenza e di indagine che permette di cogliere qualcosa della complessità e della bellezza del mondo.
Il bello secondo Simone Weil, consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione.
La bellezza è veramente, come dice Platone, una incarnazione di Dio. La bellezza del mondo non è distinta dalla realtà del mondo. (Q, IV, 371)
Per questo l’artista accoglie e nutre fiori, alberi, alberi che diventano cervelli, che diventano coccodrilli concepiti in una tensione verso la bellezza e la comprensione di una conoscenza che rivela la propria armonia tra la mente ed il mondo; non c’è per questo bisogno di andare in un altro luogo per trovare la chiave della salvezza, basta saper leggere i fenomeni per scorgervi i simboli di cui sono intessuti.
Se la comprensione nasce dalla possibilità di creare, nelle opere di Chiara Castagna c’è una verità coltivata nella ritualità del gesto e nel linguaggio costituito che la rende un universo a sè fatto di sfere perlescenti e di forme archetipiche.
Sono perle postmoderne, realizzate con colla vinilica accuratamente dosata nell’impatto con la tela da una mano sapiente che vigila ed evita che la materia si fonda sulla superficie.
Prende forma un’idea concettuale precedentemente elaborata in qualità di visione, sogno,
e intuizione che porta alla luce connessioni di realtà simbolica celate nell’invisibile . Una sorta di mondo parallelo dei segni capaci di interagire con la natura cognitiva degli uomini.
In un’epoca così disorientata da un punto di vista estetico dove il valore dell’opera d’arte nasce da un’impatto spesso sociologico con la realtà che ne rivela limiti contraddizioni e ipotesi di cambiamento, queste opere si pongono in un universo dove l’idea stessa di bellezza è ipotesi di cambiamento. L’armonia del semplice gesto ripetuto come un mantra purificatore e capace di relazionarsi con i luoghi e modificarli con la forza del segno e della forma, indica la direzione che l’arte mantiene una continuità con tutte quelle ricerche che la vedono capace di trasformazione anche sul piano spirituale.
Sempre secondo Simone Weil anche se l’estetica è generalmente considerata come una disciplina particolare, è in realtà la chiave delle verità soprannaturali.
L’albero più volte ripetuto, come necessità dall’artista in alcuni suoi lavori, sottolinea simbolicamente questo desiderio di conoscenza. L’albero della vita che porta alla luce il bene quanto il male, le cui radici affondano nell’estrema umanità e le cui fronde aspirano al cielo, reca in sè la dualità dell’eternità e del tempo. Così il cervello inteso come natura pensante presente in ogni forma vivente, capace di coordinare i diversi elementi del mondo, si unisce al coccodrillo simbolo del tempo che fa vivere gli antenati in un eterno presente che lo esclude. In alcuni paesi asiatici è collegato al regno dei morti poichè svolge il ruolo di psicopompo.
Dall’artista mimimalista Phil Sims con il quale l’artista condivide l’amore per il perlescente che lui definisce un “colorato stato di grazia”, alla visionarietà degli aborigeni australiani con le loro puntiformi composizioni di animali e luoghi spirituali, ai codici miniati dove la struttura semantica dell’imagine trova valore sia nel testo scritto che nella grammatica del linguaggio visivo fissata spesso con punti, le opere di Chiara Castagna le possiamo definire come opere mistico-naturali dove scienza e spiritualità s’incontrano nel Corpus Hermeticum e nel suo potere creativo.
La tecnica usata per le sue opere sembra un’intera cascata di rugiada fatta di gocce-perle preziose quanto il sale già in precedenza usato dall’artista nelle sue opere. Una rugiada capace di dare la luce mattutina, uno dei simboli di benedizione divini, generalmente associata alla Grazia vivificante.
L’Universo che emerge, ricco di spunti simbolici, si offre al potere della trasmutazione coinvolgendoci in un’idea di futuro controcorrente rispetto ai catastrofismi contemporanei,
capace di rinnovare la facoltà dell’uomo non solo di conoscere, ma di portare alla luce l’essenza di tutti gli esseri.

Nadia Melotti

The earliest iconographers considered images as a divine gift; God had thrown open for Icons are the images of the forthcoming world; they (as well as our way of not bothering about them) allow us to rise above time and see in these images, even though uncertainly and as though “in a glass darkly”, the forthcoming world. These images are quite concrete, and to speak about the fortuitousness of certain parts of them means to utterly misconceive their symbolic nature

Pavel Aleksandrovich Florensky

mankind a window inspired by purity, contemplation, and prayer. Before accepting and beginning the pictorial process of revelation, the contemplator translated creation through various symbolic phases, one of which took place in the laying down of white on the panel as a symbol of origins, of the beginning of creation. This gesture of making the beginning white preceded the revelation of a cosmogony and was, at the same time, a ritualising of birth as the condition of creation.
In this sense Chiara Castagna is a mother who can bring things to light and accompany them towards existence through the silent meditation of expectation. In this meditative undertaking, in the absolute white of her work, she leads us back to origins: not as a nostalgic and romantic love of nature but as a result of an existential need for finding a physical and metaphorical universe, a universe where human understanding can find its creative force and then set out to discover a language able to fix nature’s cosmic code, one which is here in front of us.
Just as science at times constructs the elements on which to elaborate its conceptual models, so art organises its own symbolic models by way of the information extracted from the endless source of experience.
Vortexes of lines within primigenial space hint at the development of a flower inside minimal dynamic movements, the expression both of a process for gaining knowledge and of inquiries which allow something of the world’s complexity and beauty to be discovered.
According to Simone Weil, beauty consists of a providential order, as a result of which truth and justice, as yet unrecognised, quietly call for our attention. As Plato said, beauty really is an incarnation of God. The world’s beauty is not distinct from its reality. (Q, IV, 371)
This is why in her work the artist not just welcomes, but encourages the flourishing of
flowers and trees, trees which become brains that then become crocodiles… all conceived of through the attraction of beauty and an understanding of the knowledge that reveals the harmony between the mind and the world. This does not mean a need to go elsewhere in order to find the key to salvation: it is enough to read phenomena in order to perceive the symbols it is woven from.
If understanding derives from the possibility for creation, in Chiara Castagna’s work there exists a truth cultivated through the ritual of her gestures and the work’s constitutive language and which make of it a universe in itself, one made up of pearlescent spheres and archetypal forms.
These are post-modern pearls, made from vinyl adhesive accurately placed on the canvas by an attentive hand that is careful that the material does not to fuse with the surface.
A conceptual idea takes shape, one previously elaborated through a visionary, dreamlike, and intuitive quality that brings to light a symbolic reality previously masked by invisibility. A kind of parallel world of marks able to interact with man’s cognitive nature. In an age of aesthetic disorientation – where the value of a work often derives from its sociological impact with reality, one which reveals its limits, contradictions, and suggests possibilities for change – these works inhabit a world where the very idea of beauty is itself a suggestion for change. The harmony of a simple gesture – repeated like a purifying mantra, able to relate to places and to modify them with the strength of its marks and forms – indicates the direction the art must take: a continuity with all those activities that consider art as being able to bring about spiritual change as well.
Also according to Simone Weil, even if aesthetics are generally considered a specific discipline, in fact they are the key to supernatural truths.
A tree variously repeated, as the artist does in her paintings, symbolically underlines this desire for knowledge. The tree of life brings to life good as well as evil; its roots extend into human depths and its branches aspire heavenwards: in itself it contains the duality of eternity and time. Similarly the brain, in the sense of the nature of thinking, is present in every living thing, and is able to coordinate the various elements of the world; it is linked to the crocodile, a symbol of time that allows ancestors to live in an eternal present. In certain Asian countries it is linked to the kingdom of the dead and it assumes the role of a psychopompe.
Like the Minimalist artist Phil Sims – with whom Chiara Castagna shares a love of pearlescence, which he has called “a coloured state of grace” – , like the visionary art of Australian aborigines with its dotted compositions of animals and spiritual places, and like illuminated manuscripts where the semantic structure of the image has the same value for both the written words and the grammar of the visual language, her works might be defined as mystical-natural where science and spirituality are united both within the Corpus Hermeticum and in her creative power.
The technique she uses for her work seems to be a cascade of dew, pearl-drops as precious as the salt she previously made use of: a dew glistening with morning light, a symbol of the divine benediction usually associated with life-giving grace.
The richly symbolic world that emerges is subject to transmutation and involves us in an idea of a future that is contrary to the current, catastrophic viewpoint; it is one that can renew humanity’s faculty, not just for knowledge, but for bringing to light the essence of all beings.

Nadia Melotti.

Chiara Castagna è nata a Verona nel 1967. Lavora in un luminoso appartamento dove vive, poco lontano da Porta Vescovo, ai piedi delle Torricelle. Sostiene che si può fare di tutto in appartamento e che in questo modo tra arte e vita non c’è più distinzione. Insegna al Liceo Artistico. La mattina “evoca capolavori, illustra poetiche, indaga movimenti”. Nel pomeriggio studia il bello attraverso la pratica diretta della pittura. Una pittura in cui prevale l’indefinibilità della forma, o meglio, una forma che la luce fa aggallare, sporgendola, spingendola verso l’esterno. Una forma che si ammanta di luce, che arde, come un pensiero “da notti bianche”.

Intervista VERONA LIVE

Studi d'Artista: 2. Chiara Castagna

Che cosa rappresenta lo studio per un artista? Un rifugio, un laboratorio, un luogo del pensare e del fare? E come provare a descrivere uno spazio che registra le tracce della creazione, il faticoso processo che porta dalla potenza all’atto, dalla mano all’opera? È un compito, almeno a prima vista, impossibile (…)

Segue il secondo servizio con l’intervista a Chiara Castagna e le foto del suo studio.

Il tema dello “studio d’artista” è sicuramente coinvolgente e, per certi versi, intrigante. Anche se oggi sembra avere un sapore quasi ottocentesco. Gli artisti più giovani infatti non hanno più un vero e proprio studio e non accarezzano nemmeno lontanamente l’idea romantica di averne uno. Per loro l’arte la si può fare ovunque, in una dimensione senza limiti: senza il peso di nozioni come tempo, spazio, pareti, tele, colori. Essa è qualcosa di fluido, mercuriale, imprevedibile.
L’idea stessa di libertà creativa anzi viene esaltata, portata al massimo delle proprie possibilità, quando l’artista ha il coraggio di uscire dal suo atelier o la “fortuna” di non averne uno.
Io ho sempre lavorato, con e senza studio, praticamente dappertutto. Anche se capisco che per alcuni collezionisti vedere che l’artista ha uno studio è quasi una garanzia di professionalità e di rigore operativo. Ma è un discorso più economico che estetico (o etico). 
In questi anni ho spesso  lavorato in casa. Non però in cucina come Paul Klee (ottimo cuoco), ma in una sala da pranzo spaziosa, più interessata alla luce che non al luogo in sé… A volte, per i lavori di grandi dimensioni, mi sono rifugiata in camera su di un letto (rigorosamente matrimoniale).
Si può fare di tutto in un appartamento. Io non mi sono mai posta dei limiti: anche la scultura in cemento armato o le installazioni ambientali possono nascere in una stanza. Solo che, a quel punto, tra arte e vita non c’è più distinzione, ma perfetta simbiosi.
Io ho sempre amato vivere in mezzo all’arte, assaporarne in ogni momento l’esistenza, sentirne la bellezza, l’energia creativa come un invitato sempre presente, visibile e a volte invisibile.
Per le immagini c’è il mio sito appena aggiornato www.chiaracastagna.it , lì la mia casa-studio è rappresentata molto bene: invito ad osservarne la dimensione domestica anche se spero non “addomesticata”…

Il mio rapporto con Verona è sempre stato soddisfacente. È una città elegante, colta, stimolante. E dal punto di vista urbanistico, un raffinato museo a cielo aperto. È una città consapevole della propria bellezza ed è bellissimo vivere dentro i ritmi lenti di una provincia che ancora ama il suo territorio. Anche se a volte dà l’impressione di una certa pigrizia, di un certo conformismo, più appagata dei fasti del proprio passato che aperta a nuove avventure e sperimentazioni.
Come artista in anni andati ho fatto mostre in molti spazi della città, cercando di mettermi sempre in relazione con il contesto. Ho fatto anche esperienze importanti a Palazzo Forti o nelle imponenti sale del Palazzo della Gran Guardia. Bagni di folla alle inaugurazioni, quando ancora pensavo importante “mostrare” e spiegare alla gente cos’è l’arte contemporanea.
Ora non più: non c’è più niente da spiegare. Forse ho imparato che l’arte non va spiegata, non ha bisogno del foglio illustrativo come un farmaco. Dovrebbe essere sufficiente guardare, entrare in relazione, porsi in ascolto, come in una sorta di meditazione, di silenzio attivo.
Forse oggi il silenzio è la vera rivoluzione creativa, il collegamento, il ponte invisibile tra l’arte e la dimensione del magico, tra l’arte e tutte le cose che crescono e si espandono nell’universo. E se è vero ciò che dicevano gli antichi che tutto è vivo, che tutto è sacro, tanto più lo è l’arte.
L’arte come esperienza sacra, rivelazione, epifania, stato estatico. Artisti lo si è sempre (lo si è tutti!): è un modo di guardare il mondo, è una forma di pensiero furtivo, fatto di nascosto. Non è lavoro, non è routine, è lo splendore dello stupore, l’estasi naturale. Picasso, quando gli si chiedeva quale periodo della sua carriera preferisse, rispondeva immancabilmente: “ Il prossimo”.
Dal punto di vista dei materiali lavorare nel luogo dove vivo non mi ha mai dato preoccupazione alcuna. Non uso i colori ad olio (troppo lenti!), ma neppure trementine, solventi, siliconi, resine sintetiche o prodotti chimici particolarmente aggressivi. Ho conosciuto artisti che hanno avuto danni gravissimi per la costante esposizione ai solventi…
Preferisco le tecniche ad acqua, veloci, di immediata asciugatura. Anche perchè non ho mai ripensamenti e mi piace il gesto fulmineo che rimane impresso sulla tela.
Ci sono vernici ad acqua di eccellente qualità che danno risultati splendidi. Ma anche colle viniliche per i rilievi, tempere, acrilici finissimi, acquerelli, inchiostri. Pure l’encausto o la cera, se trattati con il giusto grado di fusione, permettono di raggiungere ottimi esiti (senza provocare danni fisici).
L’ambiente dove lavoro deve avere un unico requisito fondamentale: essere molto luminoso… per molte ore al giorno.
La pittura per me in fondo è luce che si fa rilievo, emergendo dal fondo bianco della tela, come quando si gioca sulla sabbia bagnata del mare. È uno sfolgorio che impressiona la retina, è una materia sensibile che si agglutina quasi senza intervento umano… È una danza plastica.
La mia mente pensa sempre in rilievo. Così le tele diventano come oggetti tridimensionali, come stratificazioni luminose.

Molti sono gli artisti hanno avuto una carriera come insegnanti. E anche a me piace il contatto con i ragazzi: amo la loro forza, la loro creatività, l’ardore dei loro sogni … fonte inesauribile di ispirazione. E il Liceo Artistico (in cui insegno) è una vera fucina di idee, ricerche, esperienze. Io mi sento perfettamente a mio agio immersa in questo crogiolo di arte e di vita! Non è magnifico? La mattina esercito il potere della parola, evoco grandi capolavori, illustro poetiche, mi immergo nella bellezza di opere che vanno dalla preistoria ai nostri giorni… nel pomeriggio, nella pace del mio studio, medito attraverso la pratica della pittura.
Nel tempo libero? Vado nei boschi, lungo i fiumi, nelle vecchie contrade a vedere gli alberi, i nostri veri antenati… il mio soggetto poetico preferito, anche se sempre ripensato, trasfigurato.

 intervista raccolta dalla redazione di VeronaLive